appendicectomia

caro dottore,

lo so che l’appendice non serve a niente, che non m’avrebbe portato nulla di buono. Ma era la mia appendice. O almeno la sentivo un po’ mia.
Si, lo so, era una appendice pazza, infiammata, che mi faceva più male che bene. Anzi, solo male. E anche gli altri organi sani ne risentivano. E io non stavo bene. Forse sarebbe diventata pwritonite. Però alla fine mi ci ero affezionato, alla mia appendice.
Si, in effetti ultimamente non si stava bene, con quella pazza appendice infiammata, ma con i farmaci, negli ultimi giorni, mi ci ero riappacificato, con la mia appendice.
E allora, proprio ora che stava un po’ meglio, perché portarmela via. Perche toglierla. Ok, si, ho capito. Non serve a niente, e mi faceva solo che male.
Ma alla fine mi ci ero affezionato alla mia appendice. E mica ci devo fare niente, con la mia appendice. Mica deve per forza servire a qualcosa. Sta li, mi fa compagnia.
So che c’è.
E adesso che me l’avete portata via, adesso che me l’avete asportata…. un po’ mi manca. Perché alla fine, per quanto infiammata, era sempre la mia appendice.
E ora ho nostalgia, un po’, di quella pazza appendice infiammata. Penso che forse, se avessi bevuto di meno, se avessi preso meno freddo, se l’avessi curata di più, quell’appendice sarebbe ancora lì, al suo posto. E ora chissà dove la manderete, in un freddo barattolo di vetro. Si, magari vedrà anche il mondo, ma forse stava meglio accanto al mio intestino, che nel freddo barattolo di vetro che girerà il mondo.
E per di più mi ci avete lasciato una bel segno, una virgola, proprio sulla pancia. In modo che ogni tanto, alzandomi la maglietta, io mi ricordi che lì, un tempo, c’è stata un’appendice, a cui ho voluto bene. E che ora non c’è più. E se esiste ancora, non sarà più la mia appendice.

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Si faccia una domanda cattiva e si dia una risposta.
«Quale bestemmia tirerebbe se fosse un cassintegrato oggi? “PD”». (Daniele Luttazzi)

www.unita.it/news/culture/89964/il_regno_birbonico_finito_ma_non_il_berlusconismo

Azuz
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mille modi di usare una card

Sono vagamente di fretta.

Devo passare da SheDevil e poi partire in auto alla volta di Zion.
Sono in un ritardo non da poco e devo prelevare al bancomat. Operazione che trovo noiosa, ma semplice e veloce. Che di rado causa intoppi. (Ricordo solo una volta che in Campo Marzio sopraggiunse la polizia con le pistole in mano urlando come pazzi, ed ebbero come risposta un commesso giovane che, con gli occhi al cielo e le braccia allargate esclamò: “lo vogliamo aggiustare questo cazzo di allarme che è la terza volta che succedeee!” Mentre io cercavo di dissimulare imbarazzo esclamando “ma no, mannaggia, mi si è sciolta la barretta di cioccolato che tenevo nella tasca posteriore dei pantaloni”.)

 

Arrivo Quindi al bancomat di Cavana. Sono il terzo della mini-coda. Al primo posto, malauguratamente, una coppia di scarti umani. Nella fattispecie due scarti di motociclismo.

Lui & Lei. Entrambi in evidente soprappeso ma senza sembrare flaccidi. Molto vicini ai 50, ma tentando disperatamente di sembrare giovani ontheroader bukowskiani.

Al braccio hanno due caschi (ho capito, siete due motociclisti).

E hanno un paio di Jeans sgualciti, talmente aderenti che darebbero noia a Pistorius.

Entrambi con ai piedi degli stivali. Nel settembre più caldo che l’effetto serra abbia mai conosciuto. (Ho capito, siete due motociclisti vagamente cowntry).

Lui ha un gillet in pelle con le frange che danzano al vento. (Ho capito, siete due motociclisti vagamente cowntry, tendenzialmente western)

Lui ha i guantini in pelle torchiati (ok, ok. Siete due motocicilisti cwntry, western e senza alcuna sensibilità termica).

 

Una coppia appassionata di Guinness dei primati. Evidentemente lui, dopo aver rotto con fronte 174 tavolette del wc in 2 minuti, su pressione della signora ha deciso di affrontare il record del prelievo più lento del nord-est.

E mi rivolgo a te, inutile truzzo obeso a due ruote.

Vista la raffinata aura intellettuale che sprigioni dal vivaio di mitili che si è generato sotto le tue ascelle, posso immaginare che alla soglia dei cinquant’anni quello sia il primo bancomat della tua vita. E ti vedo mentre te lo passi da una mano all’altra, con fare circospetto. Lo ausculti, lo annusi, con le labbra all’infuori. Guardi la tua donna agrottando le sopracciglia, alzi le spalle e le dici “Uh”. Come solo Bingo Bongo farebbe.

Io capisco che, fino ai 49 anni hai sempre che il bancomat fosse quell’utensile per lavorare la cocaina sulla tavoletta del cesso di un cowntrybar, o per aprire la porta di entrata di case che vorresti fossero tue.

Davvero, non è colpa tua. Ma perché adesso, che la tua vita è un’altalena tra un bar e un meccanico devi decidere di affacciarti alla modernità intellettuale?

 

Mentre mi rivolgo telepaticamente al mio interlocutore, mi accorgo che i due, da circa una trentina di secondi (che sembra niente, ma in coda al bancomat sono eterni) stanno pacatamente dialogando, gesticolando. Lui si gratta la guancia ruvida. Lei si passa una mano tra i capelli stopposi. Esprimono dubbi e indicano lo schermo del bancomat.

 

Non ce la faccio più. Incuriosito sbircio.

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Ultima cena omeopatetica

L’omeopatia è ciarlataneria.

 
È ormai assodato dalla comunità scientifica in generale e dalla mia comunità scientifica in particolare (dott Super & dott Pipetta).
Diluire il principio attivo di un farmaco dovrebbe, secondo i ciarlatani, essere più efficace. Secondo questo principio uno spritz al Campari dovrebbe sbronzarmi di più di un Negroni.
 
È un po’ come se io la mattina per compensare un mal di testa spezzassi un’aspirina e ne prendessi mezza. Poi, chiaramente, se il mal di testa non mi passa, ne prendo un’altra mezza. E poi ancora mezza e ancora. Alla fine ho preso due aspirine “classiche” o quattro “aspirine omeopatiche”?
 
Si va incontro a quell’effetto cosiddetto “del Gesù Cristo dal braccio corto”.
Alla cena Gesù spezzò il pane e lo condivise con i suoi discepoli dicendo “questo è il mio corpo…”.
Nella sua idea questo pane-corpo miracoloso doveva illuminarli nello spirito.
Ma essendo dei fricchettoni poveracci, Gesù divise una sola pagnotta (il suo corpo) fra tutti e dodici. Per cui l’effetto illuminante di quel cannibalismo travestito da transustanziazione fu mitigato, annacquato… per l’appunto omeopatico.
 

Il risultato che dopo cena uno (Giuda) lo tradì, uno (Pietro) lo rinnegò, uno (Giovanni) s’inchiappettò la sua fidanzata. Le nefandezze degli altri nove nei confronti del Cristo furono insabbiate dalla lobby delle Particole, affinché la comunione restasse pratica diffusa nonostante i pessimi precedenti.

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I cani somigliano ai loro padroni

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Ultimamente mi dicono che sto tornando come un tempo: snob, misogino, arrogante, intollerante… insomma, che sto tornando in salute.

E infatti ad ogni passo che compio nel mio habitat incontro una categoria insopportabile.


L’ultima l’altro giorno nella mia consueta passeggiata per Cittavecchia. Anche il mio antagonista era nel suo habitat naturale, che purtroppo s’interseca col mio: piazza Hortis. È infatti uno di quei personaggi che uso chiamare “Punkabbestia borderline”.

È un essere appartenente a quella categoria più ampia delle migliaia di “Wannabe” che popolano le città.

Il soggetto non ha l’ardire (si badi bene, “ardire”, non intelligenza, che nella fattispecie è un elemento mai entrato nella sua dimensione) di sposare la causa dei Punkabbestia (che ho già avuto occasione di catalogare come “scarti umani” e ribadisco) ma esprime il suo disagio intellettuale (nella fattispecie il disagio di non avere un intelletto) nella sua passione per dei quadrupedi canini che hanno avuto due sfortune nella loro vita animale: essere scherzati dalla natura nelle fattezze ed essere scherzati dalla vita nell’essere accoppiati ad un padrone caratteriale.

 

Questi individui hanno una filosofia tutta loro nella gestione del rapporto padrone-cane-restodelmondonormodotato che mi si è palesato in quest’occasione.

 

Cammino per piazza Hortis e mi si fa incontro il vitello-cane-diavolodellatasmania del cerebroleso.

Io, come al solito privo di ogni paura, ipocondria o timore reverenziale reagisco nell’unico modo che conosco e che mi viene spontaneo: mi paralizzo nella postura che ho in quell’istante, che è la postura di chi sta compiendo un semplice passo della gamba.

Resto alcuni secondi in quella posizione (scomoda), congelato come fossi stato colpito dal raggio di Mr. Freez (venendo tra l’altro fotografato da vari turisti che mi scambiano per la statua di Svevo) mentre il Gargoile mi si avvicina con l’espressione di chi vuole solamente delimitare il territorio… del suo intestino con il mio polpaccio.

 

A quel punto il padrone cerebroleso ostenta sicurezza: “tranquillo, non ti fa niente!”.

 

Ora, dico io, posso anche capire che tu, che ti sei diplomato a ragioneria con una tesina sul BMW serie3, abbia bisogno, per compensare la tua scarsa autostima, di possedere un Rotvailer incrociato con un Iveco. Capisco meno il fatto che tu e i tuoi simili crediate che un cane, anche quando è talmente massiccio da richiedere la patente C solo per tenerlo in garage, debba scorrazzare senza guinzaglio. Il mio bastardino (frutto di una dinastia di 7 incroci ibridi e almeno due scontri accidentali, con i denti della consistenza della caramelle Haribo, che ti fa le feste e scodinzola anche mentre un pastore calabrese gli violenta la madre) quando vedeva il guinzaglio saltava di gioia e non ha mai avuto la necessità di chiamare né la Gabbanelli né tantomeno Amnesty International.

 

Ma soprattutto mi chiedo, cosa ti fa pensare che io, che considero il tuo cane uno strumento buono oggi per l’Afghanistan e domani per la Siria o l’Iran, possa considerare le tue rassicurazioni credibili, come se venissero da un normodotato.

E poi, cosa mi rappresenta la reprise “vuole solo annusarti” ?!?!

Ma no, fai pure, annusami pure, caro killer dei bipedi. Adesso vado a casa del tuo padrone, infilo un dito nel sedere a sua moglie e, se ti chiede, tu digli “tranquillo, vuole solo prenderle la temperatura”.

Mi sento considerato quanto uno di quegli alberi di piazza Hortis, che se potessero lamentarsi del cane in avvicinamento si sentirebbero rispondere dal Kirkegaarde dei miei coglioni “tranquillo, oh Pioppo, ti vuole solo orinare sulle radici”.

 

In effetti la differenza tra me e il Pioppo è che lui è piantato lì a vita e io me ne potrei andare, fottendomene bellamente delle necessità olfattive di quell’incudine a quattro zampe. Il fatto è che, nel dubbio, preferisco restare ancora un po’ là, fermo, piuttosto che trovarmi fra qualche tempo a gareggiare contro Pistorius sui 400 metri piani, raccontandogli, tra una batteria e l’altra, che no, non è vero che i cani ti annusano tanto per annusare. Vogliono effettivamente solo sapere se la merenda è buona o è troppo speziata.

 

E mentre ero lì impietrito in quella posizione di chi sta facendo un passo e si blocca a mezz’aria, ho avuto come l’impressione che la statua di Svevo girasse la testa verso di me e mi chiedesse “Hey! Pssst! Se n’è andato il Pitt Bull che mi annusava la caviglia?”

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Lavorare con lentezza, morire molto in fretta

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Il prossimo che mi dice quanto sono nevrotico, frettoloso, sempre di corse e nervoso, lo mordo al collo. E non con fare conturbante (quello è mordicchiare) e nemmeno con fare voluttuosamente mortale (tipo vampiro). Proprio gli strappo la trachea. Perché le persone che ti riprendono in tal senso di solito sono causa e non soluzione alla tua frettolosa nevrosi. Sono quelle persone che usano termini come “take it easy” (e già per questo meritano il supplizio), “prendi la vita come viene”, “suvvia che fretta c’è”, “dai, su, che ti viene l’infarto”.

 

È senza dubbio bella una vita rilassata con i tempi scanditi dalla natura, ma ciò non significa che tu, figlio di meretrice accoppiatasi con bradipo, debba per forza rallentare la mia di esistenza.

 

Es_1: il parcheggio.

Senza dubbio parcheggiare a Trieste è un problema. Ma anche nel centro di Trieste, anche nel centro che più centro non si può, ciò non è mai questione di vita o di morte. Le auto girano e rigirano, e non ho mai visto nessuno, con la cravatta legata attorno alla fronte tipo “il Cacciatore” lanciarsi a tutta velocità con l’auto dal molo urlando “l’adriatico è un parcheggio gratuito”.

Tanto meno mi è mai capitato la mattina, uscendo di casa, di vedere donne di mezza età, in vestaglia e pantofole, con in mano una tazzina di caffè, che bussano al vetro di un auto in seconda fila. E dentro l’auto c’è un sacco a pelo. E dentro il sacco a pelo il marito della donna.

No, non capita, un posto lo si trova.

Per cui non occorre che appena vedi una persona uscire di casa, ti fermi a osservare se per caso sta vagamente cercando nella borsa qualcosa che possa assomigliare a un mazzo di chiavi e a scrutare se nei suoi occhi c’è il desiderio di chi vuole prendere l’auto per andare Dio solo sa dove. E poi la segui, a passo d’uomo, creando una fila da esodo pasquale, finché non si avvicina  a un’auto e ne apre la portiera. A quel punto ti fermi, metti le luci di posizione, azioni tutte le frecce di cui la tua merdona auto dispone, affinché lampeggino all’unisono, inserisci una INUTILISSIMA retromarcia, suoni il claxon, fai dei gesti, lanci dei coriandoli e alzi a tutto volume “Taji Mahal” dalla tua autoradio.

Perché nel frattempo, per il tuo merdoso parcheggio c’è alle tue spalle un serpente di auto. E in ogni auto un uomo che sbatte la testa sul cruscotto e si chiede se andranno mai via i segni dei denti che ha appena lasciato sul volante.

 

Es_2: la spesa.

Fare la spesa, per molte persone a cui la vita ha riservato pernacchie, è un momento fondamentale. Persone che hanno la giornata talmente vuota che dilatano ogni gesto quotidiano nel tentativo di dargli un’importanza capitale (“ecco, piano, attenta, è un momento delicato, attenta a non prendere la pasta di Kamut… più a destra, ecco si, quella che è in offerta… evvai, presa! Ora tentiamo con lo stracchino…”).

Per quanto mi sforzi di non dar loro attenzione, prima o poi si arriva in cassa, e lì bisogna confrontarsi con questo essere. E allora si che sbuffo e sale il nerbo.

Perché tu, dannata mantenuta dall’inps, devi impiegare un’ora a dialogare con un cassiere (ventenne, ex teppistello del liceo, precedenti di tossicodipendenza)?

Nel frattempo alle tue spalle s’è formata  una coda che fra i suoi membri conta anche persone che, magari, devono tornare al lavoro (dopo ti spiego che cosa vuol dire). E magari hanno una fretta della Madonna. E magari fuori dal supermercato non hanno ad aspettarli una Delorean con flusso canalizzatore.

Io non dico che tu debba accelerare i tuoi movimenti fluidi e pensati per me, che sto mordendo il salame intero per guadagnare tempo. Però ad esempio usare il cervello (anche questo te lo spiego dopo) aiuterebbe tutta la società.

Stare con le mani in mano mentre Terry lo sfattone gode dei “bip” che fanno i tuoi risotti liofilizzati sulla cassa, non ha senso. Potresti nel frattempo imbustarli. Ma no, tu devi commentare il problema dell’immigrazione. Una volta che Terry il fattone ti consegna il conto, potresti pagare. Ma no, a quel punto è il momento di imbustare, grandissima troia, lasciando il povero Terry, suo malgrado, con le mani in mano, causando in lui il nascere di una grande voglia di metadone.

A quel punto, quando hai fatto i tuoi porci comodi e alle tue spalle la fila è divenuta tale che l’ultimo praticamente è in un altro supermercato, estrai il borsellino. Ho detto “il” borsellino? Scusa, che sciocco. “i borsellini”. Perché il primo ha le banconote grosse (pezzi da 100 che io manco li ho mai visto e tu ti lamenti della tua pensione milionaria?!?!), il secondo le banconote medie (5 e 10), il terzo le monete, il quarto i bronzi (i centesimi, la tua più grande passione da quando, nel 1923, sei entrata in menopausa).

E infine, quando ormai credo di avercela fatta, l’uscita che mi fa dubitare dell’uso che dovrei fare delle lamette da barba appena acquistate. Guardi il display della cassa, mediti, rinfoderi la banconota da 50 che già avevi in mano ed esclami compiaciuta:

“Quant’è? 49 euro e 99 centesimi? Allora aspetti che glieli do giusti!”

 

P.S.: non cacate la minchia con i refusi, sono di strafretta e molto nervoso, non lo rileggo. Lo correggerò domani.

 

 

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Tonnara di passanti

Non ho gran memoria della mia infanzia. Non ricordo quasi nulla, se non concetti vaghi di avvenimenti, testimoniati da fotografie che narrano i successi di famiglia.
Dopo aver visto Truman Show e Ed Tv, ma soprattutto dopo aver compreso di quali successi è capace la mia famiglia, mi sono persuaso che quelle foto fossero costruite a tavolino, allorché mia madre pagava delle comparse di contorno e mi faceva sollevare una coppa, sempre la stessa, modificata nell’aspetto con la stagnola.

In questo modo, quando fossi cresciuto e i miei geni si fossero manifestati in tutta la loro inettitudine, avrebbero potuto compensare eventuali complessi di inferiorità mostrandomi quelle foto farlocche e consolandomi con “vedi che se ti impegni puoi tutto nella vita?”. O forse serviva solo per esaltare le doti di stirpe con i vicini e gli amici, magari con la convinzione che, nel caso di una seconda ondata nazista saremmo finiti fra gli eletti della specie e non sulla mensola di qualche bagno.

Ma a parte tutto questo, ho netta memoria (e svariate testimonianze) di essere stato in gioventù un campione di pesca. E grazie anche a questo ricordo (di successi pressoché casuali visto che non mi sono mai impegnato per imparare una qualsivoglia attività) sono cresciuto nella convinzione di avere grandi capacità manuali/atletiche/intuitive. Dopo il crollo della cucina, di un’anta dell’armadio, di un porta-sacchetti da muro e dell’attaccapanni della Ste (tutte cose che ho montato padroneggiando il trapano come uno spot della coccola light) la mia autostima traballa e sbanda.

Credo di aver capito il perché risalendo proprio all’episodio della pesca. Quelle gare si svolgevano in modo semi-pilotato da un’organizzazione di stampo Montessoriano con l’unico scopo di dare ai bambini convinzione nei propri mezzi.

Prendi alcune manciate di bambini con problemi caratteriali o di sviluppo fisico (io per fortuna credo di essere stato tra i caratteriali e non tra quelli guasti) e li metti attorno a un lago che si scrive “lago” ma si legge “piscina gonfiabile” visto che per le sue dimensioni non sarebbe segnalato nemmeno sulla piantina dell’Acquasplash. Riempi il lago con due mestoli d’acqua e tre tonnellate di trote allevate ad Aushwitz secondo la dieta tipica locale del ’43. A quel punto chiunque pescherebbe anche usando un Kinder Delice come esca e un wurstel come canna.

In questo modo le autorità educative ottengono lo stesso risultato, la vittoria dei più capaci (o busoni) ma evidentemente vincere per distacco di 12 trote contro 8 trote è più educativo che vincere per due moscardini contro un infradito.

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Suggerimenti postumi per Alì il chimico

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Andare in vacanza richiede di affrontare, notoriamente, un problema eterno: la defecatio.

Per chi come me ha fatto del suo organismo il secchio della raccolta dei rifiuti indifferenziati, il problema si rivela ancor più sensibile. Mitigato solo in minima parte dall’esperienza maturata nel quotidiano duello con il proprio sfintere.


Eccomi ordunque in vacanza.


Una giornata alla guida in auto (pranzo: panini) una notte insonne in nave (cena: non pervenuta) una colazione imperniata sulla totale assenza di fibre e infine l’arrivo alla prima località di villeggiatura (sì! “villeggiatura”!).
Primi due giorni: niente da segnalare. Ma fin qui è normale e i ricordi degli antichi fasti sul trono di casa sono ancora freschi, tali da compensare l’aridità dei primi giorni.


Il terzo giorno, trasferimento in entroterra: forse l’allontanamento dall’aria di mare (che libera i polmoni, ma solo quelli) aiuterà. Ergo, terzo giorno: nulla in vista.
E qui inizia la preoccupazione. Perché anche se nessuno passa dalla porta, qualcuno sta bussando. Insistentemente e con veemenza. Come se sull’uscio ci fosse un gigante abbronzato, parecchio incazzato ma sordo. E per quanto gli si dica “AVANTI!” lui non sente. Ma continua a bussare.

Chiaramente dopo 3 giorni di stanze dotate del trono di ceramica, tocca un passaggio in camping (sì!, “camping”!). E qui qualcosa inizia a muoversi. Perché l’energumeno (che per convenzione chiameremo Bruno) pare abbia smesso di bussare e abbia iniziato a forzare la maniglia. La giornata, tra spiagge, auto e bar con dei servizi che sono al servizio del male batterico, non lascia grandi possibilità se non quella di forzare gli addominali sperando che il gigante Bruno non si stufi e decida di passare dalla finestra.

All’arrivo serale in campeggio ormai si è talmente allenati da potersi anche prendere il tempo di organizzarsi con tutti i crismi: si monta la tenda, si sistema la borsa, si prende un’Amazzonia di carta, le sigarette e via! In un cesso di Trainspottinghiana memoria.

Vabbè, c’è tutto il tempo di applicare ogni accortezza igienica, trovare una posizione comoda che permetta di: a) fumare, b) leggere, c) tenere con la mano la porta chiusa visto che la serratura per il direttore del campeggio ha solo la funzione di sbirciare dentro i wc, quindi, perché mettere un chiavistello quando basta un buco?!

 

Chiaramente tre giorni di alcool, alimenti di fortuna e peregrinare per luoghi ignoti non passano senza lasciare un segno. Per cui son certo che, con tutti gli sforzi della mia esile muscolatura addominale qualcosa uscirà. Ma non so se saranno gli occhi, una vertebra, l’addome o (vivaddio) il gigante Bruno.

Mentre realizzo uno dei miei più grandi successi fisiologici/atletici rifletto sulla stupidità del corpo umano che nonostante millenni di evoluzione riesce ancora ad avere laggiù “una pista ciclabile adibita al passaggio dei camion”.

 

Il glorioso successo è firmato da un sorriso ebete che mi si stampa in volto inconsciamente e che cancello immediatamente appena torno in me.

E rifletto su quanto alla fine quest’esperienza escrementizia sia come gli affetti, il lavoro. La vita in generale. Una serie di sofferenze e poi di sforzi. Per ottenere una soddisfazione. Che dura un lampo. E poi resti con uno stronzo nel water e briciole di malinconia.

Ma che vogliamo fare? Stare li a respirarle?

Tiriamo l’acqua e andiamo via. Con la promessa, stavolta, di mangiare più fibre.

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TEMA: UNA GIORNATA ALLA MANIFESTAZIONE NO-TAV

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          Caro diario,

 

questo weekend sono andato, con i miei amici, alla manifestazione no-tav, per protestare contro i treni ad alta velocità che deturpano le desolate e inaccessibili vallate del nostro paese.

 

Io e i miei amici, ci siamo trovati dopo cena e abbiamo raggiunto a piedi il piazzale antistante la stazione di Trieste, luogo d’incontro con gli altri ragazzi del movimento. Con lo zaino in spalla, il pranzo rigorosamente al sacco (e vegetariano… che domande) una bottiglia d’acqua e i sandali di ordinanza, siamo saliti sul treno, per raggiungere la città della manifestazione. Abbiamo viaggiato di notte, dormendo accoccolati sui nostri zaini. Ogni tanto, durante la notte, ci si svegliava a vedere per quale stazione stavamo passando.

L’indomani mattina, alle prime luci dell’alba, ci siamo alzati per prepararci a scendere. Rassettati frettolosamente, siamo scesi dal treno pronti per la manifestazione. È stata una giornata deliziosa, una bella manifestazione contro la Tav…e  poi Gorizia è una città deliziosa.

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L'impossibilità di combattere la sofferenza nel mondo

Nel 1956 il Maestro Frongler Von Stuttgard attraversò un breve periodo di depressione a causa del suo insuccesso nelle ricerche volte a trovare il senso della felicità e dunque alleviare le sofferenze dell’umanità.
Di grande aiuto fu, in quel periodo, il sostegno del suo amico d’infanzia il teologo Del Simmamaer.
Simmamaer spiegò a Stuttgard i risultati delle sue ricerche, finanziate dal Vaticano, sui diversi gusti sessuali. La teoria sosteneva che, qualora la felicità non possa essere raggiunda in una direzione, la si può rinvenire nella direzione opposta.
Illuminato da questa teoria Stuttgard tornò in sè, abbandono gli studi sulla ricerca della felicità e si dedicò alla ricerca delle cause della sofferenza, vale a dire quelle situazioni di malessere e sofferenza a cui la scienza, il progresso, la cultura non erano insipegabilmente state ancora in grado di dare risposta.
Armato del suo consueto approccio inferenizale deduttivo, dopo 6 mesi di osservazioni e studi attenti il Maestro individuò tre situazioni di sofferenza che nessuno era ancora a fronteggiare esplicate nel "DE IMPOTENTIA", celebre trattato pubblicato nel 1958 sulla nota rivista di equitazione "moana e il cavallo"

I tre punti sono, nell’articolo in questione, così elencati:

1- Grattugia centripeta:
ovvero l’impossibilità per l’uomo di grattuggiare il Grana Padano sul piatto senza innevare l’inter tavola. Frongler cercò di spiegarla con l’imperfetta opponibilità dei pollici, ma venne aggredito da una setta Darwiniana

2- De Smagnuzzaio: che si verifica ogni qual volta un essere umano si nutre a letto o sul divano. Ovvero l’impossibilità di evitare le briciole nel letto, quali che sinao le contromisure prese. Questo è una della situazioni più dolorose per l’uomo e Frongler teorizzò che la causa fossero le correnti ascensionali, ma fu aggredito con la sciabola dal colonnello Bern H., allora figura di spicco dell’esercito svedese.

3- De Futurae:
la terza situazione di sofferenza fu individuata nell’imposssibilità di infilarsi alle orecchie gli auricolari dell’iPod nel modo giusto (auricolare destro nell’orecchio destro e auricolare sinistro nell’orecchio sinistro). Non arrivò a postulare una spiegazione perché il governo svedese, accortosi da una soffiata che l’iPod non era ancora stato inventato, condannò Frongler al rogo.

Il Maestro fu costretto a fuggire, rifugiandosi a Manchester dove per alcuni anni lavorò come portuale.

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